Christopher S. Celenza. The Lost Italian Renaissance. Humanists, Historians, and Latin's Legacy. Baltimore and London: Johns Hopkins University Press, 2004. xx + 210 pp. $45.00 (cloth), ISBN 978-0-8018-7815-2.
Reviewed by Maurizio Campanelli (Indipendent Scholar, Rome)
Published on H-Italy (February, 2006)
Il Rinascimento perduto di Christopher S. Celenza è la letteratura latina prodotta in Italia nel XV secolo. Proposito del volume è indagare le ragioni della scarsa fortuna editoriale che questa produzione ha avuto nella storia degli studi, tanto più scarsa se raffrontata alle innumerevoli edizioni di cui sono stati fatti oggetto i testi della letteratura latina antica e di quella mediolatina. Questa situazione contrasta con l'indubbia centralità che la letteratura latina del XV secolo ha avuto nella storia della cultura e del pensiero occidentali, una centralità che oggi è difficile far apprezzare pienamente al pubblico dei non specialisti proprio a causa della mancanza di edizioni e traduzioni dei testi.
Il libro si articola in sei capitoli. Il primo porta il lettore nell'atmosfera del diciannovesimo secolo, mostrando come da un lato le idee romantiche sulla lingua, considerata l'espressione più autentica del genio nazionale di un popolo, dall'altro i nazionalismi imperanti in quell'epoca abbiano oscurato la letteratura latina dell'Umanesimo, considerata allora una produzione sostanzialmente artificiosa e sterile, che avrebbe perfino bloccato il progresso della cultura e della lingua italiana, così felicemente avviato nel tardo Medioevo.
Il secondo capitolo è dedicato alle figure di Eugenio Garin e Paul Oskar Kristeller. Celenza delinea un profilo del pensiero filosofico di Benedetto Croce e Giovanni Gentile, evidenziando come, in materia di storia della cultura, l'approccio diacronico di Croce (quello che "moves through time and seeks what is important in a given epoch for the future", p. 28) e quello sincronico di Gentile (un approccio che "looks less for the origins of modernity and more for the continuities with the past that a period possesses, as well as for a period's self-understanding", p. 29) abbiano determinato l'idea che rispettivamente Garin e Kristeller ebbero della cultura rinascimentale, dando così un'impronta decisiva agli studi di entrambi. Di Kristeller sono molto ben delineate anche le radici tedesche, immerse nel tardo idealismo e nell'ultima stagione dell'"Altertumswissenschaft", che nutrirono in lui quel sentimento, cui rimarrà sempre fedele, di una rigorosa distinzione tra la filosofia teoretica, considerata apice del sapere, e gli "studia humanitatis", ritenuti un bagaglio essenzialmente tecnico. Il problema è che né la prospettiva diacronica di Garin, né quella sincronica, erede della "Grossforschung" germanica, di Kristeller sono riuscite ad assicurare uno spazio autonomo alla letteratura latina del Rinascimento italiano nel sistema universitario nordamericano, sebbene a ciò abbia contribuito anche il fatto che tale produzione, considerata nella sua interezza, non rientri perfettamente in nessuno degli ambiti disciplinari canonici dell'insegnamento universitario (letteratura, filosofia, storia).
Il terzo capitolo disegna un panorama delle principali scuole di pensiero che hanno animato il dibattito filosofico e storiografico del ventesimo secolo, analizzate da Celenza nei loro rapporti dialettici. Scorrono davanti al lettore le figure di Frege, Wittgenstein, Heidegger, de Saussure, Lévi-Strauss, Sartre, Derrida, Focault, Rortry, la vicenda degli "Annales" francesi, attraverso i lavori di Bloch, Febvre e Braudel, la microstoria di Ginzburg, per finire con Randall Collins e Thomas Kuhn, Gaston Bachelard e Pierre Bourdieu. In questo panorama Celenza mette in risalto le idee di Rortry, in particolare la sua nozione di filosofia "as therapeutic and conversational", che appare in grado di affrancarci dalle rigide gerarchie ontologiche proposte dalla filosofia tradizionale, e le "suggestions" di Bourdieu, che vede la produzione di un particolare pensatore non solo come l'esito di un impulso speculativo individuale, ma anche come il risultato di "structuring forces", mosse dalla società in cui il pensatore si trova a vivere e con le quali deve interagire ai più vari livelli.
Il quarto capitolo è tutto volto a delineare il profilo di due figure esemplari della cultura umanistica, Lorenzo Valla e Marsilio Ficino. Il tentativo è quello di indagare la loro "orthodoxy", ovvero la sintonia del loro pensiero con l'ambiente culturale nel quale e per il quale esso fu concepito. Valla appartiene ad una stagione - la prima metà del Quattrocento -in cui gli "studia humanitatis", sebbene in forte espansione, sono poco istituzionalizzati e ancora non predominano nelle università e nelle corti. Celenza ripercorre le vicende biografiche ed intellettuali di Valla, concentrandosi in particolare sullo scritto che dimostrò l'apocrifia della Donazione di Costantino, sul De professione religiosorum, sulle Adnotationes al Nuovo Testamento e sul De libero arbitrio. Il culto per il cristianesimo delle origini, e per san Paolo in particolare, il finissimo senso della lingua, la concezione della retorica, l'accento posto sul carattere dialogico della cultura: sono questi gli aspetti del pensiero valliano scelti per valutare i modi in cui l'autore interagì cogli ambienti nei quali si trovò a svolgere la sua attività intellettuale. Ficino è invece espressione di un Umanesimo maturo, ormai fortemente radicato nelle istituzioni. Ma nella stessa Firenze medicea, a partire dall'inizio degli anni '80, il rinsaldarsi dell'aristotelismo nello Studio, l'emergere di figure come Poliziano e Pico, e finalmente la vicenda di Savonarola mutarono profondamente il quadro socioculturale in cui Ficino aveva concepito e in buona parte realizzato le sue maggiori imprese di autore e traduttore. Una parte rilevante del profilo di Ficino è dedicata alle teorie esoteriche esposte nel De triplici vita: l'idea di fondo è che pure questa parte della produzione ficiniana, apparentemente la più lontana dall'ortodossia tradizionale, "should not be seen only as the result of a personal philosophical quest, but also as a social phenomenon, a way to distinguish a position for himself within a complex and changing intellectual field while remaining true to his core convictions" (p. 106). Nel quinto capitolo Celenza tenta di collocare la "lost literature" nel contesto dei "gender studies" come delineati nei lavori di Joan Wallach Scott e di Caroline Walker Bynum. Molti testi latini del XV secolo propongono spunti di riflessione sui temi dell'onore e della reputazione, fattori di decisiva importanza in una comunità letteraria come quella umanistica, in cui il successo o l'insuccesso erano determinati dalla rete di rapporti che il singolo riusciva ad intessere con gli altri membri della "res publica litterarum"; questo soprattutto nella prima metà del Quattrocento, prima che la nuova cultura mettesse radici nelle istituzioni e prima che fosse scoperta la stampa. Celenza mostra come il tema dell'onore e del comportarsi onorevolmente si fondi su "masculinizing ideas", trovando piena legittimazione in un mondo in cui è l'uomo che agisce nel contesto pubblico, mentre alla donna pertiene esclusivamente il contesto privato. "Masculinity is performative [...]; it is a quest for experience that must be valitated in community; and it is embodied in a culture of seeing and hearing" (p. 121). Questa prospettiva consente di esaminare sotto una nuova luce alcune costanti della cultura umanistica, quali l'uso del latino, da cui le donne erano perlopiù escluse, la predilezione accordata al genere letterario del dialogo, la tendenza a raccogliere e far circolare in pubblico le proprie lettere private, il culto per l'oratoria, la smania di far carriera nella corte papale, unanimemente riconosciuta come la casa comune di tutti gli intellettuali europei. Per dare uno specimen di tutto ciò, Celenza ripercorre le vicende di un autore che rappresenta un caso esemplare di "lost literature", Lapo da Castiglionchio il giovane: sia nel De curiae commodis che nell'epistolario di Lapo emerge l'opposizione tra onore/mascolinità e disonore/femminilità; ad analoghi risultati Celenza arriva attraverso rapidi sondaggi in alcuni scritti dell'Alberti e nei testi della celebre polemica tra Valla e Poggio.
Il sesto capitolo si occupa di filologia, mettendo in evidenza le differenze che caratterizzano la filologia esercitata sui testi latini del Quattrocento rispetto alla filologia classica tradizionale. Ad esempio, il diverso peso dei "codices descripti", che nel Quattrocento spesso danno preziose informazioni sulla coeva fortuna di un'opera; la presenza di autografi, spesso di più autografi, che vanno dai brogliacci di lavoro agli esemplari in pulito da cui trarre copie di dedica e che ci consentono di vedere l'autore al suo scrittoio, di osservare le evoluzioni, spesso non lineari, della sua cultura, del suo pensiero, del suo modo di porsi rispetto alla realtà che lo circonda (gli esempi sono tratti dai due manoscritti autografi di Lapo da Castiglionchio giunti sino a noi); e poi ancora, per rimanere nell'ambito della filologia d'autore, l'esistenza di redazioni multiple, di cui non sempre l'ultima è stata quella che circolò più ampiamente (rilievo che rimane valido anche per le edizioni a stampa). Proprio l'affermarsi della stampa, che cambiò i modi della circolazione del libro, unitamente all'affermarsi del volgare come lingua letteraria e al mutamento della situazione politica dopo la discesa di Carlo VIII, porterà alla conclusione, verso il 1530, di quello che Celenza chiama "the long fifteenth century", riecheggiando la nozione ormai affermata di "long sixteenth century". Il libro è concluso da un'appendice che fa il punto su "the state of the field in North America".
Il libro di Celenza non è rivolto al pubblico degli specialisti della letteratura umanistico-rinascimentale; il suo proposito è piuttosto quello di far avvicinare i lettori statunitensi, ed in particolare il pubblico delle università, ad una produzione che è stata tanto importante quanto oggi è dimenticata. Un libro quindi che si propone di suscitare curiosità, risvegliare interesse, accendere il dibattito. Obiettivi che certamente può raggiungere, grazie all'ampiezza e alla poliedricità di prospettive che lo animano e alla brillantezza dello stile in cui è scritto. Cogliere sintonie tra la letteratura latina del Quattrocento e alcune tesi del dibattito filosofico e storiografico novecentesco, così come leggere parti di quella letteratura alla luce delle acquisizioni dei "gender studies" è certamente un esercizio che, se fatto con l'intelligenza e il senso del limite col quale lo conduce Celenza, potrà dare qualche risultato; in ogni caso è il benvenuto, qualora servisse a ridare smalto e forza di penetrazione alla filologia umanistica negli Stati Uniti: qui più che mai, il fine giustifica i mezzi.
Ma in Europa bisognerà trovare una via diversa, perché legare in qualche modo le sorti della letteratura umanistica a questa o a quella scuola storiografica o filosofica del Novecento - scuole di cui la stessa rassegna di Celenza evidenzia il carattere effimero e la tendenza a calare concetti banali in esposizioni complesse - difficilmente potrebbe assicurare una prospettiva di lunga durata allo studio di tale produzione. In Europa la letteratura latina del Quattrocento potrà continuare a suscitare interesse, anche in ambito non specialistico, solo se verrà inserita, come momento fondante, nel ben più vasto ambito del neolatino, ovvero in quell'immensa produzione scritta in latino, o anche nutrita fino al midollo di latinità, che ha costituito la spina dorsale della cultura occidentale per tutta l'età moderna. Per far questo è necessario lasciarsi alle spalle quella pregiudiziale letteraria, ancora così fortemente radicata, che porta a vedere in Bembo una sorta di spartiacque biblico tra il regno del latino e quello del volgare, e contestualmente si dovrà allargare il raggio d'azione del filologo a tutti gli ambiti disciplinari nei quali, per secoli, si è continuato a scrivere in latino, o in cui il latino ha continuato ad essere una lingua fondamentale. In fondo, anche nel ristretto circuito della letteratura propriamente detta, se si guardasse al complesso della produzione e della cultura di un personaggio come Giovanni Della Casa, il più fedele discepolo di Bembo, ci si renderebbe conto che il latino a metà Cinquecento non aveva affatto perso terreno. Bisognerà dunque mettere al centro dell'attenzione la lingua, anche nei suoi rapporti dialettici con le lingue nazionali, in una situazione in cui il latino non è più lingua unica, come era stato per quasi tutto il Medioevo, ma esercita un primato ideale ed ha una presenza quantitativamente e qualitativamente imponente. La prospettiva dovrà essere diametralmente opposta a quella ottocentesca: considerare il latino come il comune denominatore linguistico di un'intera civiltà, ruolo che ha potuto svolgere proprio grazie alla sua stabilità, al suo non essere legato a contesti nazionali. Fu il sogno, per lunghi secoli realizzato, di una lingua sottratta alla contingenza, depositaria di valori che si volevano sottratti alla contingenza, capace di dar espressione ad ogni ambito disciplinare, ad ogni forma di cultura scritta, sicché si può tranquillamente affermare che il latino sia stato non solo l'elemento unificante, ma anche l'elemento più stabile della cultura occidentale nei secoli dell'età moderna, grazie alla sua qualità di codice di comunicazione fisso e versatile al tempo stesso. Questa prospettiva è l'unica via, in Europa, e in Italia in particolare, attraverso la quale il latino possa rivendicare uno spazio accanto alle grandi lingue di cultura dell'età moderna; per questa via potrà passare anche la rivitalizzazione dello studio della letteratura latina del Quattrocento.[1]
Le traduzioni dei testi sono senz'altro utili e sempre benvenute, ma perdere il contatto con la lingua originale sarebbe letale per questa produzione, perchè vorrebbe dire considerarla un'esperienza definitivamente morta. Legarne le sorti ad eventuali assonanze, necessariamente tenui, con la cultura oggi in voga, vorrebbe dire guardare a quella letteratura non come ad una radice ancora viva e vitale della nostra identità, ma come si guarda un vecchio capitello, residuo di un edificio perduto, esposto in un museo. Se ne potrà vedere ogni dettaglio ed ogni bellezza, ma non se ne potrà mai più apprezzare la reale funzione che esso svolgeva nell'edificio, il suo significato strutturale. La pratica del latino, e con essa una navigazione senza preclusioni attraverso l'oceano di scritti prodotti in quella lingua dal Quattrocento all'Ottocento, non solo aprirà una via d'accesso privilegiata all'edificio della cultura europea d'età moderna, ma, cosa ancora più importante, consentirà di non destrutturare quell'edificio, di non considerarlo una cava di materiali da rifunzionalizzare in un babelico presente. Questa appare la via da seguire in Europa, ed in Italia in particolare, augurandosi che il libro di Celenza possa produrre negli Stati Uniti quegli effetti per i quali è stato concepito.
Note
[1]. Segnalo per inciso che non solo nell'Università statunitense, ma anche in quella europea la letteratura latina umanistica non ha uno spazio istituzionalmente riservato; in Italia, essendo ormai da anni scomparso nominalmente il gruppo disciplinare di "Filologia medioevale e umanistica", l'umanesimo latino rischia sempre più di scomparire anche fisicamente dall'Università, fagocitato dallo studio della letteratura in volgare. Esiste bensì un gruppo disciplinare denominato "Letteratura latina medievale e umanistica" ma è costitutito pressoché interamente da medievisti, che considerano l'umanesimo, nei rari casi in cui lo considerano, come l'agonia del Medioevo e non come la prima stagione dell'età moderna.
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Maurizio Campanelli. Review of Celenza, Christopher S., The Lost Italian Renaissance. Humanists, Historians, and Latin's Legacy.
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